Oggi a Gela, il mio paese, è la festa della Madonna delle Grazie.
Una festa sentitissima e molto partecipata dall’intera popolazione, che mi evoca ricordi che profumano di tradizioni e di un’infanzia semplice ma felice.
Le bancarelle sul lungomare che arrivavano a fine giugno, erano un’occasione da non perdere, “dovevo assolutamente andarci”.
Chiedevo a mio padre i soldi per comprare i braccialetti della fortuna, per fare la treccina ai capelli con i fili colorati, mi perdevo tra le cianfrusaglie, i costumi da bagno, le borse etniche e andavo alla ricerca della bancarella che vendeva le magliette “Onyx”, mangiucchiando caramelle gommose.
La processione della Madonna delle Grazie, lunghissima, con fiumi di persone devote, alcune addirittura scalze, con lo sguardo perso ma carico di speranza, i sorrisi pieni di gratitudine di quella gente che la Grazia l’aveva ricevuta, i bambini piccoli che ad ogni stazione venivano spogliati e affidati alla Madonna.
Partecipavo affascinata e respiravo tradizioni, ero curiosa e facevo domande a mia nonna, perché era lei che mi portava alla processione. Camminavo per ore, senza lamentarmi, stanca ma felice. E di tanto in tanto, lungo il tragitto incontravamo qualche mio compagno di classe, le amichette di danza o ginnastica, i compagnetti del catechismo (dopo), ed era ancora di più festa, ci raccontavamo di quelle poche settimane di vacanza e di cosa avessimo fatto e poi ci salutavamo con un “ci vediamo a settembre”.
La festa della Madonna delle Grazie segnava l’inizio della stagione estiva, nei giorni precedenti, infatti, non si andava molto al mare, erano anni in cui le estati non erano così calde come adesso, e giugno era un mese di impegni lavorativi ancora stringenti.
Il 3 luglio ci si trasferiva alla casa al mare. Non c’erano i campus, c’erano i grest ma non erano molto frequentati, io ed i miei cugini ci trasferivamo insieme ai nonni e trascorrevamo le giornate in bici, al mare, a giocare a pallone, sull’altalena. Quanto amavo andare sull’altalena con i miei zii, perché loro riuscivano a “farla volare in alto”.
Al mare, ogni anno, rincontravamo gli amici dell’estate, che durante l’inverno non vedevamo mai, ma ogni volta era come se non fosse passato un giorno dall’ultima volta che avevamo giocato insieme.
Le giornate passavano lente, tra un ginocchio sbucciato e tanti gelati, sempre in costume, con la doccia fuori per non riempire casa di sabbia, altrimenti la nonna si arrabbiava, i pantaloncini e il giubbotto di jeans che la sera faceva freschetto. Quanti desideri lasciati a stelle cadenti che non cadevano solo il 10 di agosto, le passeggiate fino al paninaro dove c’erano i ragazzi più grandi, ma io lì in mezzo avevo i miei cugini e così venivo accolta come la mascotte. Mio zio che, ogni sera, mi raccontava Freud, Schopenhauer o Platone e mi faceva ballare sulle note di Battisti, Celentano o Venditti, che cara la mia baby dance scansate proprio.
Settembre arrivava in un baleno e quando la maestra ci chiedeva di raccontare la nostra estate eravamo tutti felici e ricchi di aneddoti da condividere.
Erano estati semplici, nella maggior parte dei casi senza nemmeno il televisore perché i canali si vedevano male e Italia 1, che trasmetteva i cartoni animati in certe fasce orarie, non si vedeva affatto.
Ero felice anche se quando mi annoiavo nessuno cercava di riempire quel tempo vuoto con chissà quale effetto speciale.
E oggi ricordare quei momenti mi ha reso felice, esattamente come allora.